Come funzionavano le cartiere medievali

Come funzionavano le cartiere medievali

Alessandro Trizio

Seconda puntata: I Segreti della Valle dei Mulini

Valle dei Mulini nel pieno del XIII secolo. L'alba si alza sulla costiera e già si sente il ritmico battere dei magli, il fragore dell'acqua che precipita sulle ruote e le voci dei cartari che iniziano la loro giornata di lavoro. Benvenuti nel cuore pulsante dell'industria medievale amalfitana.

Ma come funzionavano davvero queste antiche cartiere? Dopo aver scoperto nella prima puntata come gli Amalfitani appresero quest'arte dagli Arabi, oggi vi portiamo dentro questi straordinari opifici che trasformarono semplici stracci in oro bianco.

La Valle dei Mulini non era solo un luogo geografico, ma un vero e proprio distretto industriale ante litteram. Nel XVIII secolo ospitava ben sedici cartiere attive, ognuna delle quali era un microcosmo perfettamente organizzato. Un atto notarile del 1759 ci descrive dettagliatamente come erano strutturate: ogni cartiera era suddivisa in ambienti specializzati, ognuno dedicato a una fase specifica della lavorazione.

Il cuore meccanico: l'energia dell'acqua

La vera genialità degli Amalfitani fu sfruttare la forza del torrente Canneto. L'acqua precipitava violentemente su enormi "rotoni" (ruote a contropeso) che mettevano in movimento gli "alberi di trasmissione" chiamati "fusi". Era un sistema di ingegneria idraulica medievale di straordinaria efficienza.

Questi fusi azionavano i terribili magli chiodati: enormi martelli di legno con decine di chiodi di ferro alle estremità, forgiati negli opifici di Pogerola. Il suono di questi magli che battevano incessantemente doveva riecheggiare per tutta la valle, creando una sinfonia industriale che annunciava la prosperità di Amalfi.

Al piano terra di ogni cartiera si trovavano le "pile": imponenti vasche di pietra calcarea dove avveniva la magia della trasformazione. Gli stracci di lino, cotone e canapa accuratamente selezionati e puliti nello "stracciaturo" venivano gettati in queste vasche piene d'acqua.

I magli chiodati scendevano ritmicamente, spezzando le fibre e riducendo tutto in una poltiglia omogenea. La forma e dimensione dei chiodi determinava la consistenza finale: chiodi più grossi per carte più spesse, più fini per le pregiate "bambagine". Un sistema di precisione che oggi definiremmo "controllo qualità"

La caldaia e il segreto della colla

In un angolo della cartiera, avvolta dai vapori e dagli odori intensi, stava la caldaia di rame. Qui bolliva per ore il "carniccio": scarti di pelli bovine che, attraverso lunghe cotture, si trasformavano nella preziosa colla animale. Questo collante era fondamentale per legare le fibre e dare resistenza ai fogli.

Il processo richiedeva quattro-cinque ore di ebollizione continua, e l'odore caratteristico doveva impregnarsi in tutti i vestiti dei lavoratori! Ma senza questa colla, la carta si sarebbe sbriciolata al primo utilizzo.

Al centro della cartiera troneggiava il tino in muratura, interamente rivestito di maioliche per impermeabilizzarlo. Qui la poltiglia di stracci si mescolava con la colla animale e l'acqua, creando la miscela perfetta per la formatura.

Ed ecco il momento più delicato: il maestro cartaro immergeva nel tino la "forma" un telaio con bordura di legno (il "cassio") e al centro una fitta rete di fili di bronzo e ottone che costituiva la filigrana. Ogni movimento doveva essere preciso, ogni gesto calibrato dall'esperienza di generazioni.

Una volta formati, i fogli umidi venivano trasportati negli "spanditoi": ampie stanze al piano più alto della cartiera, con grandi finestre e fori di aerazione per permettere la circolazione dell'aria. Qui i fogli riposavano per giorni, asciugandosi naturalmente grazie alle brezze marine e ai venti che risalivano dalla costiera.

L'ultima fase avveniva nell'"allisciaturo", dove i maestri cartari selezionavano la carta di prima qualità, scartando quella difettosa, e procedevano alla stiratura finale con il palmo della mano. Era qui che la carta acquisiva quella superficie liscia e uniforme che l'avrebbe resa famosa in tutto il mondo.

Ogni cartiera era praticamente una piccola città autosufficiente. Il piano terra ospitava pile, tino e caldaia. Al secondo piano c'erano lo stracciaturo, le botteghe e l'abitazione del "reggente di pile". Al terzo le case dei lavoranti e del direttore. Al quarto gli spanditoi. Un mondo verticale dove ogni piano aveva la sua funzione specifica!

Le famiglie più importanti: Amatruda, Bonito, Cimino, Lucibello, Taiano, Torre possedevano veri e propri imperi industriali. Gli Amatruda, presenti dal 1198 a Pogerola, arrivarono a possedere cartiere con 125 pile complessive e una rendita netta di oltre 1.450 ducati, tra i 750.000 e gli 800.000 euro odierni.

La vita nella Valle dei Mulini seguiva il ritmo dell'acqua e delle stagioni. Alcune cartiere, per mancanza di acque perenni, non erano attive tutto l'anno. I lavoratori dovevano adattarsi ai capricci del torrente Canneto, che poteva essere generoso o avaro, calmo o impetuoso.

Le alluvioni erano il nemico numero uno: l'acqua che dava vita alle cartiere poteva anche distruggerle, portando detriti e fango che rovinava macchinari e scorte. Ma gli Amalfitani, con quello spirito di sacrificio e tenace volontà che li aveva resi grandi sul mare, ricostruivano sempre tutto.

Le altre puntate della serie:

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