Furto in biblioteca: spariti Matisse e Portinari

Furto in biblioteca: spariti Matisse e Portinari

Eleonora Antonini

Domenica scorsa, alla Biblioteca Mário de Andrade, la seconda per dimensione di tutto il Brasile, è andato in scena un altro furto da film.

Stando alle prime ricostruzioni due uomini armati hanno fatto irruzione nella biblioteca, hanno immobilizzato la guardia e un’anziana coppia che si trovava tra gli scaffali, poi hanno caricato otto preziose incisioni di Matisse ed almeno cinque opere di Cândido Portinari e se ne sono andati tranquillamente a piedi, come se nulla fosse.

La Biblioteca, nel cuore di San Paolo, è dotata di telecamere con riconoscimento facciale, dettaglio che dovrebbe far storcere il naso anche al più ingenuo tra i ladri; non è inoltre un semplice contenitore di libri ma è un centro di ricerca oltre che un archivio di immagini e documenti che raccontano la storia artistica del Brasile e del mondo.

Le opere rubate non si trovavano in una sala museale ma in una sezione dedicata allo studio: non pezzi da esibire per stupire il pubblico, bensì materiali di lavoro per ricercatori, storici dell’arte e studenti. 
La loro presenza nella biblioteca non è quindi un errore ma una scelta culturale radicata. 

Molte grandi biblioteche del mondo conservano infatti collezioni di grafica: è una tradizione antica soprattutto in paesi dove musei e biblioteche sono cresciuti insieme, scambiandosi materiali e competenze.

Anche in Europa capita spesso che una biblioteca nazionale o universitaria custodisca stampe, album, fogli rari o piccole opere legate allo studio della storia dell’arte. 
Si tratta di oggetti più fragili dei grandi dipinti e, per questo, tradizionalmente affidati a istituzioni che sanno gestirli con cura, catalogarli e renderli accessibili agli studiosi.

Che un Matisse su carta si trovasse in una biblioteca non è dunque incongruo: è il risultato di una logica che considera la cultura un tutt’uno, senza rigide barriere tra musei, archivi e fondi speciali.

Eppure proprio questa apertura ha mostrato una fragilità imprevista.

Il furto mette a nudo un paradosso: ciò che viene custodito per essere condiviso può diventare bersaglio proprio perché più accessibile.

Le biblioteche, al contrario dei musei, hanno spesso regole meno restrittive sulla circolazione interna, sulle modalità di consultazione e sul rapporto diretto con gli utenti. Sono luoghi di studio e silenzio, non di allerta permanente.
Questa scelta civile, che dà valore al sapere, finisce oggi per trasformarsi in un tallone d’Achille.

Il delitto arriva in un clima globale già teso e la reazione europea al furto brasiliano, infatti, non si limita alla condanna.

Poche settimane fa il Louvre è stato colpito da un furto clamoroso ed alcuni giorni fa da un’infiltrazione d’acqua che ha danneggiato centinaia di materiali archiviati; episodi simili sono accaduti anche in Germania, Francia, Portogallo e persino nei musei di provincia dove la sicurezza è più fragile. 

In Europa questi eventi vengono interpretati con crescente preoccupazione e segnalano che il patrimonio culturale mondiale si trova in una fase di transizione delicata in cui la criminalità organizzata ha compreso che le istituzioni sono più vulnerabili di quanto si pensasse.

Si legge nei commenti di esperti e studiosi una certa amarezza e la consapevolezza che l’arte, pur essendo un patrimonio comune, viene difesa in modo diseguale. 

Musei monumentali, spazi iconici, collezioni celebri ricevono protezioni sofisticate mentre le biblioteche, gli archivi e le sale studio - luoghi dove la cultura vive davvero - sono spesso considerati secondari nonostante custodiscano materiali fragili, spesso unici e fondamentali per capire la storia.

Perché, allora, proprio ora assistiamo a un aumento dei furti d’arte, nonostante la difficoltà estrema di rivendere opere note?

Una risposta univoca non esiste, ma diversi fattori concorrono a creare un terreno fertile.

Il primo riguarda la digitalizzazione.
Negli ultimi anni cataloghi, collezioni ed archivi sono stati messi online in modo massiccio: ciò che un tempo richiedeva sopralluoghi, contatti discreti e informazioni recuperate quasi per caso è oggi disponibile a pochi clic di distanza.

I criminali possono studiare planimetrie, verificare la presenza di materiali preziosi e valutare punti deboli delle strutture semplicemente confrontando foto e descrizioni pubbliche.

La trasparenza, nata per favorire la conoscenza, si trasforma così in un’arma a doppio taglio.

Il secondo fattore è economico.

L’arte è diventata un bene rifugio e la volatilità dei mercati, l’instabilità politica in varie aree del mondo e la ricerca di beni concreti, trasportabili e difficili da tracciare rendono le opere d’arte appetibili per circuiti illegali.

Non serve vendere un Matisse in un’asta clandestina: è sufficiente usarlo come garanzia per un debito, come pegno per operazioni illecite o come moneta di scambio tra bande organizzate.

In questi contesti il valore di mercato ufficiale è decisamente irrilevante: conta infatti la riconoscibilità del nome che ne aumenta il peso simbolico.

Terzo fattore: i sistemi di sicurezza non sono all’altezza della complessità moderna.

Molte istituzioni culturali vivono una crisi silenziosa fatta di strutture vecchie, impianti da rinnovare, personale ridotto e fondi insufficienti.
Si investe molto in grandi mostre che attirano pubblico e sponsor e molto meno nella manutenzione delle strutture.

Questo squilibrio si vede chiaramente anche nel caso brasiliano: la biblioteca era dotata di riconoscimento facciale, ma ciò non ha impedito ai ladri di agire con disinvoltura. 

Il punto non è la tecnologia in sé, ma il fatto che spesso viene applicata senza una strategia integrata.

Il quarto aspetto è culturale.
Il furto d’arte gode da sempre di un’aura particolare e a differenza di altri reati porta con sé un alone di intelligenza, mistero, romanticizzazione.

Rubare un’opera famosa sembra, in certi ambienti criminali, una dimostrazione di astuzia, quasi un trofeo intellettuale.
È una percezione distorta, certo, ma reale.
I criminali che compiono questi colpi cercano non solo guadagno ma anche prestigio simbolico.

E la risonanza mediatica di ogni furto - articoli, titoli, analisi, ricostruzioni - in qualche modo alimenta questa dinamica. 

Non è colpa dei giornali, sia chiaro: è la conseguenza del fatto che i furti d’arte riguardano qualcosa che percepiamo come prezioso anche quando non lo conosciamo bene.
Sono eventi che scuotono la nostra idea di civiltà, generando inevitabilmente attenzione.

Il caso della Mário de Andrade ci mette davanti ad una domanda scomoda: quanto vale, per noi, la conservazione dei beni culturali?

Le istituzioni culturali hanno un compito doppio: proteggere e permettere l’accesso senza dimenticare che questo equilibrio richiede risorse, personale formato, strutture adeguate, manutenzione costante ed aggiornamenti continui. 

Senza tutto questo, ogni archivio diventa un bersaglio.


Da un punto di vista investigativo la speranza di recuperare le opere non è vana e spesso la rapidità dell’azione è inversamente proporzionale alla pianificazione della fuga.

Le riprese delle telecamere, i movimenti nei dintorni, la rete degli intermediari, tutto può portare a scoperte importanti. 

Il problema, però, non è risolvere questo caso specifico ma evitare il prossimo.

La lezione che arriva da San Paolo riguarda tutti e mostra come la cultura sia diventata un terreno sensibile dove si intrecciano economia, criminalità, fragilità istituzionali e responsabilità civiche. 

Mostra che la tutela non è mai solo una questione tecnica ma un progetto collettivo, che richiede volontà politica, professionalità ed una certa dose di coraggio.

E ci ricorda che l’arte non è un lusso, ma una forma di continuità che quando viene violata diventa una perdita per la comunità intera.

Ecco perché il furto delle otto incisioni e delle opere su carta non è solo un episodio di cronaca ma un segnale.

Una crepa che mostra ciò che tendiamo a ignorare: la cultura non è invincibile e va protetta ogni giorno, anche quando non ci sono riflettori puntati.
E soprattutto va protetta nei luoghi dove nasce, dove si studia, dove vive davvero: biblioteche, archivi, depositi, sale di consultazione.
Luoghi silenziosi, spesso trascurati, e proprio per questo preziosi.

Se vogliamo evitare che episodi simili si ripetano non basta indignarsi.
Serve una visione nuova che consideri la cultura un’infrastruttura essenziale e non un ornamento.

Perché se non ci prendiamo cura di ciò che racconta chi siamo stati, sarà difficile capire chi potremmo diventare.

Torna al blog