Amore e psiche di Jacopo Zucchi un enigma collezionistico
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Nel cuore della Firenze rinascimentale, un'opera d'arte di straordinaria bellezza e complessità emerge come testimone di un'epoca di magnificenza culturale e artistica.
Si tratta di una tela firmata e datata da Jacopo Zucchi, un pittore il cui nome è legato a stretto filo con la corte medicea. Il dipinto, che raffigura uno dei momenti più celebri della favola di Amore e Psiche, sembra essere stato creato per celebrare un evento altrettanto importante: le nozze tra Ferdinando I de' Medici e Cristina di Lorena, tenutesi a Firenze nel 1589.
Questa ipotesi trova fondamento nella data leggibile sulla faretra raffigurata nell'opera, nonché nel profondo legame tra Zucchi e Ferdinando, per il quale l'artista aveva già realizzato altre opere durante il suo soggiorno a Roma.
Il dipinto immortala la scena in cui Psiche, protagonista della favola narrata da Apuleio nelle sue Metamorfosi, si avvicina furtivamente al letto del suo amante misterioso con l'intento di scoprirne l'identità. Spinta dalla curiosità e dai suggerimenti delle perfide sorelle, Psiche accende una lampada a olio e, armata di un pugnale, si avvicina al corpo del giovane Amore.
La tensione del momento culmina quando una goccia di grasso bollente cade dalla lanterna, svegliando bruscamente il dio che, spaventato, vola via. Questo episodio, che ha affascinato artisti di diverse epoche, è stato reso da Zucchi con una cura minuziosa per i dettagli, incorniciando la scena all'interno di una lussuosa stanza adornata con un drappo rosso che mette in risalto i corpi dei due protagonisti.
Psiche è raffigurata con una cintura di perle e pietre preziose, mentre Amore giace semisdraiato in una posa che richiama la Divinità fluviale di Michelangelo Buonarroti.
L'opera riflette profondamente il clima culturale fiorentino del tempo, influenzato sia dalla scultura toscana, in particolare dalle figure allungate tipiche di Giambologna, sia dalle suggestioni michelangiolesche. Un esempio evidente di quest'ultimo aspetto è la figura femminile scolpita sulla spalliera del letto, che rimanda alla celebre "Notte" realizzata da Michelangelo per le tombe medicee nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo.
Inoltre, un elemento di grande rilievo nel quadro è la lucerna tenuta da Psiche, simbolo dell'Accademia del Disegno fondata da Giorgio Vasari, di cui Zucchi era membro.
Nonostante la certezza sull'autenticità e sulla datazione dell'opera, la tela è stata al centro di un acceso dibattito critico riguardante la sua provenienza e l'appartenenza iniziale alle collezioni Borghese o Aldobrandini. Nel 1996, la storica dell'arte Ilaria Miarelli Mariani ha risolto questa disputa, sostenendo l'esistenza di due distinti dipinti con lo stesso soggetto nelle collezioni delle due famiglie romane.
Secondo la sua ricerca, il quadro di Zucchi faceva parte della collezione del cardinale Scipione Borghese già all'inizio del XVII secolo, mentre un'opera simile di Pietro Aldobrandini era citata in una descrizione di Giovanni Battista Agucchi nel 1603 e successivamente registrata nel 1626 nella collezione di Olimpia Aldobrandini.
Il dipinto di Zucchi appare quindi documentato nella collezione Borghese fin dagli anni Trenta del Seicento. Un inventario del 1633 lo descrive come "un quadro d’Ipsica con Cupido colco", ulteriormente precisato da Iacomo Manilli nel 1650 e dall'autore dell'inventario del 1693, che lo attribuisce erroneamente allo Scarsellino di Ferrara.
Questo errore non ha però oscurato l'importanza dell'opera, che continua a essere un esempio eccezionale del talento di Zucchi e della sua capacità di fondere influenze artistiche diverse in una composizione armoniosa e raffinata.
Infine, è probabile che la committenza della tela sia legata a Ferdinando de' Medici, per il quale Zucchi aveva già realizzato altre due allegorie, anch'esse oggi conservate nella collezione Borghese.
Queste opere furono probabilmente destinate a celebrare il matrimonio del principe con Cristina di Lorena, avvenuto due anni dopo la morte di Francesco I, evento che portò Ferdinando a lasciare definitivamente Roma. Questa storia d'amore tra mito e realtà, intrecciata con l'arte, testimonia ancora una volta l'intreccio indissolubile tra politica, cultura e mecenatismo nell'Italia rinascimentale.