La libellula scomparsa: l’opera di Ligabue che mette a nudo le ombre del mercato dell’arte

La libellula scomparsa: l’opera di Ligabue che mette a nudo le ombre del mercato dell’arte

Eleonora Antonini

Nel tardo autunno del 2022, in una sala espositiva del Forte di Bard in Val d’Aosta, un dipinto è tornato improvvisamente sotto i riflettori: ”Autoritratto con spaventapasseri” di Antonio Ligabue, opera datata 1957/1958 che risultava rubata nel 1991 dalla casa di una famiglia a Boretto.

La ricomparsa - o meglio - il ritrovamento, avrebbe dovuto segnare la fine di un’odissea durata trent’anni per la proprietaria, invece ha aperto un nuovo contenzioso.

Questa settimana il caso è approdato davanti ai magistrati del Tribunale di Reggio Emilia, con due persone sul banco degli imputati: un critico d’arte curatore della mostra e la gallerista.

Entrambi respingono le accuse di ricettazione sostenendo di aver operato in buona fede.


Per la proprietaria - Alba Gainotti - non si tratta di un semplice furto d’arte ma di un furto identitario: «Ho speso 30 anni della mia vita a cercare quel dipinto, rappresenta la storia della mia famiglia».

L’opera, valutata circa 250.000 euro, "non è solo un oggetto di valore economico ma un patrimonio affettivo ed un legame intimo con un passato che pareva perso per sempre".

La delicatezza del caso sta anche nella contrapposizione tra due narrazioni: da un lato un' opera d’arte che torna alla luce, dall’altro la ricostruzione di un inganno scandito da omissioni, rimozioni e tentativi di reinserimento sul mercato.

Risulta infatti la presunta rimozione, durante la ricettazione, di una piccola libellula e di una porzione della vernice della giacca nella parte più bassa del quadro come anche confermato dall’expertise firmata nel 1993 da Sergio Negri, uno dei massimi studiosi di Ligabue.

Dettagli apparentemente insignificanti ma sufficienti a far tremare le certezze sull’autenticità dell’intera tela: tali interventi hanno infatti finito per danneggiare il dipinto ma sono risultati decisivi per renderne più difficile il riconoscimento tra le opere rubate.

A richiedere quella certificazione era stato un uomo allora già noto per affari poco chiari nel settore artistico, che dichiarava di aver acquistato il quadro da un idraulico negli anni Settanta, versione impossibile considerato che l’opera era stata realizzata alla fine degli anni Cinquanta per la madre dell’attuale legittima proprietaria.

Dopo quella certificazione il dipinto cambiò proprietario altre due volte, ma almeno dal 2006 era chiaro che si trattasse di un’opera rubata.
La Signora Gainotti lo aveva individuato nel catalogo della mostra e aveva informato tempestivamente i Carabinieri, che però non erano riusciti a rintracciarlo. 

Dal 2015 il quadro è stato esposto in almeno tre mostre, tutte organizzate dall’attuale indagato e, secondo la Procura, se in quelle occasioni fossero stati effettuati i dovuti controlli il furto sarebbe emerso già allora.

Intanto quella libellula, un innocuo dettaglio nella cornice del cielo dipinto, è diventata il simbolo di una truffa che tenta di camuffarsi da recupero. 

Secondo gli inquirenti, la sua sparizione non è un incidente casuale e serviva a “mascherare la provenienza” del quadro, a nascondere le tracce del furto e permetterne la circolazione indisturbata.

Il processo di oggi non riguarda solo una tela, ma un interrogativo più ampio: quanto può fidarsi il sistema dell’arte di chi gestisce, espone o commercia capolavori sottratti al loro legittimo contesto?

Il dipinto è stato riconsegnato alla Gainotti nel luglio 2022 ma resta aperta anche una causa civile perché un altro compratore sostiene di averlo acquistato prima, in buona fede. 

Intanto la legittima proprietaria si è costituita parte civile tramite il suo legale e chiede 200 mila euro di danni patrimoniali corrispondenti al guadagno che avrebbe potuto ottenere vendendo l’opera, più altri 30 mila euro di danni non patrimoniali per non aver potuto godere del quadro negli anni in cui è stato sottratto.

L’avvocato della proprietaria ha inoltre presentato una serie di documenti tra i quali figurano le fotografie del catalogo della mostra in Valle d’Aosta -in cui il quadro compare senza la libellula- e quelle dell’opera quando si trovava ancora nella casa di Boretto.


Antonio Ligabue nacque il 18 dicembre 1899 a Zurigo, in una Svizzera ordinata e severa che non avrebbe mai davvero sentito sua.

La madre, emigrata dall’Emilia, non poté occuparsi di lui e venne affidato ad una famiglia adottiva.

Fin dall’infanzia mostrò un carattere difficile, segnato da fragilità psicologiche, conflitti ed una solitudine profonda che gli sarebbe rimasta accanto per tutta la vita. 
Dopo anni di scontri e ricoveri, nel 1913 fu allontanato dalla famiglia adottiva e nel 1919, a soli vent’anni, venne espulso dalla Svizzera e accompagnato in Italia, in un Paese che conosceva appena: Gualtieri, nella Bassa reggiana, dove vivevano i suoi parenti biologici.

Conosceva il tedesco meglio dell’italiano, era poverissimo, malato e completamente spaesato, t
uttavia proprio in quelle campagne nebbiose, tra le rive del Po ed i cortili contadini, avrebbe trovato la lingua che necessitava: la pittura.

Negli anni Venti iniziò infatti a disegnare compulsivamente. prima su carta poi su tele recuperate ovunque riuscisse. 

Le sue prime opere erano scene di animali feroci o di campagna, come se l’immaginario dei libri illustrati dell’infanzia gli fosse rimasto attaccato addosso.
Il suo segno era selvatico, immediato, vibrante mentre le figure sembravano muoversi da sole e ogni colore era un affermazione di se stesso.

Non era un pittore istruito, eppure proprio quella mancanza di formazione fu la sua forza. 

La gente del paese nel frattempo lo guardava come un emarginato ma al contempo non poteva ignorare la forza magnetica dei suoi dipinti.

A sostenerlo negli anni Trenta e Quaranta fu lo scultore Marino Mazzacurati, che intuì il valore di quel talento così irregolare e lo incoraggiò a continuare, introducendolo negli ambienti artistici dell’Emilia e offrendogli protezione nei momenti più difficili. 

Fu un incontro decisivo: grazie a lui Ligabue iniziò ad essere riconosciuto come artista e non come semplice figura bizzarra della Bassa.

Gli anni Cinquanta furono il periodo della maturità ed i suoi autoritratti, intensi e drammatici, raccontano un uomo che osserva il mondo e se stesso con lo stesso timore.
 

Nelle sue tele, gli animali non sono mai semplici soggetti ma diventano metafore della forza e della fragilità umana, oltre che della sua lotta quotidiana per esistere.

Nonostante il crescente successo, la sua vita rimase segnata da ricoveri psichiatrici, crisi e momenti di isolamento.
Q
uando morì a Gualtieri il 27 maggio 1965 tuttavia, non era già più l’uomo deriso in giovinezza: era diventato Antonio Ligabue, il pittore visionario capace di trasformare una vita fragile in un immaginario potente e irripetibile.

Oggi la sua opera continua a parlarci con la stessa forza di allora: diretta, inquieta, autentica. 

Nel vasto repertorio iconografico dell'artista "Autoritratto con spaventapasseri" occupa un territorio particolare, quasi sospeso tra confessione e teatro.

Il dipinto mette in scena uno dei temi più ricorrenti dell’artista: la propria immagine, filtrata attraverso una tensione emotiva che non si limita alla somiglianza ma si trasforma in narrazione psicologica.
Ligabue qui non si limita a “ritrarsi”, ma costruisce piuttosto un piccolo dramma simbolico in cui l’uomo e la sua ombra dialogano sottovoce.

Il volto del pittore si staglia con la consueta durezza, marcato da tratti spigolosi e da un’intensità dello sguardo che sembra quasi bucare la tela: la posa è rigida, innervata di quella tensione interna che caratterizza tanti suoi autoritratti, come se la pittura fosse sempre un momento di resa dei conti con sé stesso.

Qui la figura umana non è sola, alle sue spalle compare uno spaventapasseri che introduce un elemento di straniamento: non è un semplice oggetto di campagna ma è quasi un alter ego, la proiezione di una fragile difesa.
Il cromatismo tipico dell’artista è vibrante e compatto, mentre le campiture non conoscono mezze tinte e la materia pittorica costruisce un paesaggio più mentale che rurale.

L’ambiente non ha la funzione di descrivere ma di incorniciare la tensione psicologica dell’incontro tra due “volti”, quello reale e quello evocato. 
Ligabue inserisce lo spettatore in un gioco di specchi: chi è l’uomo e chi è la maschera? Chi osserva e chi è osservato?

Lo spaventapasseri, figura marginale nella cultura contadina, diventa quindi un simbolo della condizione interiore dell’artista, un guardiano immobile che però non protegge davvero.

Ligabue sembra riconoscere in questo oggetto la propria precarietà emotiva e la lotta continua con l’esclusione, l’emarginazione ed il timore del mondo. 
Eppure, come sempre nella sua opera, non c’è vittimismo ma ostinazione e volontà di esistere attraverso la pittura.

"Autoritratto con spaventapasseri" è quindi più di un’immagine: è una forma di confronto e la testimonianza di un artista che ha trasformato il proprio dolore in linguaggio visivo, costruendo un mondo dove perfino uno spaventapasseri diventa compagno, specchio e confessione.

L'attuale vicenda giudiziaria ci dimostra quanto fragile possa essere la traiettoria di un’opera d’arte una volta sottratta al proprio contesto originario e questa tela è diventata nel mentre il punto di incontro tra memoria privata, tutela pubblica e responsabilità professionale: un crocevia che rivela l’enorme distanza tra ciò che un’opera rappresenta per chi l’ha custodita per generazioni e ciò che rischia di diventare quando entra, anche forzatamente, nella galassia del mercato.

I fatti che ruotano attorno al dipinto non riguardano soltanto una firma o un valore economico ma chiamano in causa un intero sistema, i suoi automatismi e le sue omissioni.

È legittimo domandarsi come sia stato possibile che un quadro rubato e già segnalato come tale abbia continuato a circolare e persino ad essere esposto senza che nessuno sollevasse dubbi, ma la risposta non è semplice e probabilmente non è unica, mentre il caso mette in luce che la filiera dell’arte, per funzionare, ha bisogno di rigore documentale e di una cultura della verifica che troppe volte resta affidata all’iniziativa dei singoli.

Il ritorno dell’opera alla sua legittima proprietaria non è solo una restituzione materiale ma è il recupero di una storia familiare che rischiava di essere riscritta da mani estranee.

Quanto accaduto è un richiamo forte a musei, curatori, gallerie e collezionisti: l’arte non è un oggetto neutro da far passare di mano in mano senza memoria. 
Ogni quadro porta con sé un percorso ed un archivio invisibile che dovrebbe essere rispettato e tutelato.

Se questo processo riuscirà a produrre non solo giustizia ma anche consapevolezza, allora la storia dell’“Autoritratto con spaventapasseri” potrà lasciare qualcosa di più di un fascicolo giudiziario: una lezione sulla responsabilità culturale che accompagna ogni opera.

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